L’articolo di Gabriele Ferraris del Corriere della Sera sul caso Vignale sembra dimenticare un elemento essenziale: l’umanità. In un tempo in cui tutto viene trascinato sul piano dell’opinione pubblica e delle responsabilità politiche, anche la sfera familiare diventa bersaglio, giudicata con lo stesso metro dell’arena pubblica. Ma c’è una soglia che non andrebbe superata.
Sì, Vignale ha detto: «Sono ragazzi. E sono miei figli». E ha fatto bene. Non è un alibi, è un fatto. È il riconoscimento di una zona franca che non solo esiste moralmente, ma è riconosciuta anche dal diritto: non si è obbligati a testimoniare contro i parenti stretti. Il legame familiare, anche di fronte alla legge, conserva un margine di protezione. Perché? Perché è il luogo della fragilità, del conflitto, della cura, dell’errore e del perdono.
È ingenuo pensare che i figli siano lo specchio fedele dei genitori. A diciotto o vent’anni, l’identità si forma anche per contrapposizione: spesso i ragazzi più correttamente educati sono proprio quelli che, per affermarsi, scelgono di calpestare i valori ricevuti. È un gesto di ribellione, non una dichiarazione ideologica. E chi ha un figlio lo sa.
Non si tratta di giustificare ogni comportamento, ma di non cancellare la complessità delle relazioni umane. Pretendere che un padre – solo perché figura pubblica – rinneghi pubblicamente i propri figli, li esponga alla gogna per salvare se stesso, sarebbe disumano. Non vogliamo rappresentanti istituzionali che si ergono a modelli morali assoluti, ma persone che sappiano distinguere la sfera della responsabilità da quella dell’affetto.
Trasformare questo episodio in un atto d’accusa contro l’assessore significa non solo confondere i piani, ma anche perdere un’occasione: quella di riconoscere che il compito più difficile, oggi, è rimanere umani. Anche quando si è sotto i riflettori.
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